“Ero l’arminuta, la ritornata.”
È così che Donatella Di Pietrantonio, cognome molto popolare in Abruzzo, spiega all’ignaro lettore il titolo della sua opera. Lo dice più volte, come a voler sottolineare che il ritorno può non essere soltanto uno stato fisico-motorio. Ho dovuto aspettare qualche minuto prima di scrivere i miei appunti di lettura perché, per la prima volta in vita mia, o perlomeno così mi sembra di ricordare, ho pianto leggendo.
Ricordo pianti inconsolabili per film, serie tv, lettere ed e-mail, ma non mi sembra mi sia mai successo per un libro, o perlomeno non così palesemente. Alcuni libri mi hanno scosso profondamente, ma non credo di aver mai versato così tante lacrime come stasera. Nel leggere il retro di copertina, il mio compagno aveva esclamato sorpreso: “Ma come ti va di leggere una storia così triste?”. Ho letto il libro, ma non ho idea di cosa ci sia scritto sul retro di copertina; non m’interessa poi molto, mi sono fidata della scelta fatta da mio padre sotto la guida esperta del libraio de Il Viaggiatore Immaginario (libreria di Arezzo che vi consiglio di visitare) ed anche delle parole di Michela Murgia.
Ho fatto bene a fidarmi.
Adesso, incuriosita dal ricordo del commento del mio compagno, ho girato il libro e, con mia grande sorpresa, vi ho trovato parte di un passaggio del libro che io stessa mi ero appuntata:
“Nel tempo ho perso anche quell’idea confusa di normalità e oggi davvero ignoro che luogo sia una madre. Mi manca come può mancare la salute, un riparo, una certezza. È un vuoto persistente, che conosco ma non supero. Gira la testa a guardarci dentro. Un paesaggio desolato che di notte toglie il sonno e fabbrica incubi nel poco che lascia. La sola madre che non ho mai perduto è quella delle mie paure.”
È una storia cruda, narrata magistralmente, con alcuni passaggi in dialetto che di certo non disturbano.
È la storia di una ragazzina che viene spostata come se fosse un pacco, da una madre all’altra, da una famiglia all’altra, per motivi che scoprirete solo sul finire del libro. Ma non è la trama in sé ad avermi commosso, quanto piuttosto questo passaggio che descrive la complicità fra le sorelle:
“Mia sorella. Come un fiore improbabile, cresciuto su un piccolo grumo di terra attaccato alla roccia. Da lei ho appreso la resistenza. Ora ci somigliamo meno nei tratti, ma è lo stesso il senso che troviamo in questo essere gettate nel mondo. Nella complicità ci siamo salvate.”
Io non ho sorelle, ma considero tali alcune delle mie amiche. Per questo mi piace pensare che questa descrizione si possa adattare anche alle amiche, a quel sentimento di sorellanza di cui spesso parlo.