Stasera, quando ho tolto dalla libreria “The Tenant of Wildfell Hall”, ho capito che era giunto il momento di scrivere i miei appunti di lettura su questo libro. L’ho finito da un bel po’, ma non mi ero ancora decisa a scrivere niente, non so bene perché.
Avevo comprato il libro lo scorso anno e poi, ancor prima di leggerlo, avevo deciso che sarebbe stato il protagonista del mio primo Book Club, cioè un circolo di lettura in inglese per studenti appassionati sia di libri che di lingua inglese. Ho iniziato quindi a leggere questo libro con uno scopo ben preciso in mente e questo è probabile che abbia in qualche modo interferito con l’esperienza di per sé.
In ogni caso, sin dalle prime pagine ho provato sentimenti contrastanti. Da una parte adoravo lo stile ironico con cui l’autrice raccontava i particolari più drammatici della sua storia, dall’altra tutto l’aspetto legato alla preghiera mi faceva un po’ prudere il naso (e qui so benissimo che dovrei soffermarmi a ragionare sulla mia reazione, l’ho fatto e lo sto ancora facendo!).
Si tratta di un’autobiografia in cui l’autrice racconta di come abbia ritrovato se stessa, e molto altro, durante i 12 mesi trascorsi fra Italia, India ed Indonesia. In Italia ha mangiato ed ha imparato la lingua, in India si è ritirata in un Ashram dove ha praticato lo yoga e la meditazione ed in Indonesia ha trovato, o meglio ritrovato, l’amore.
La parte dedicata all’Italia è quella che, in assoluto, mi ha fatto ridere di più. Mi sono divertita a scoprire come l’autrice avesse tradotto alcune parole e modi di dire italiani e mi è piaciuto il suo modo di affrontare alcuni stereotipi culturali. L’India, come vi dicevo poco fa, mi è risultata forse più pesante e meno scorrevole, ma una volta arrivati a Bali ho definitivamente fatto pace con il libro.
Mi sono ricordata di alcune lezioni universitarie (storia del teatro orientale) durante le quali non potevo far altro che restare a bocca aperta durante i racconti del Prof. Savarese. Fu allora che venni a sapere che i bambini nati a Bali non poggiano i piedi a terra fino ad un preciso giorno e fino a quel momento vengono tenuti in braccio, appoggiati sul cuore della mamma, del babbo, degli zii, dei nonni e degli altri membri del clan. Quel racconto mi aveva letteralmente stregata e l’ho ritrovato anche nelle pagine della Gilbert con maggiore dovizia di spiegazioni e di particolari.
Non potevo non innamorarmi.
Devo ammettere che l’incontro amoroso è stata forse la parte del libro che mi ha toccato meno, ma sono certa che se lo avessi letto in un altro momento della mia vita avrei avuto una reazione diversa, quindi ben venga anche questo. Forse fra me ed “Eat Pray Love” non è stato un colpo di fulmine. Quello che provo per questo libro mi fa pensare più a quell’amore duraturo che cresce di giorno in giorno partendo da un grande rapporto di rispetto e stima reciproca. Non posso far altro che stimare una trentacinquenne che ha deciso di mettersi a nudo raccontando la sua storia al mondo e poi la stima diventa ammirazione quando capisco che ha avuto il coraggio di fare quello che io molto spesso ho paura anche solo di pensare.
La Gilbert ha ripreso in mano la sua vita e nel farlo è stata fonte d'ispirazione per altri.
Forse non sarà un capolavoro della letteratura, ma sono felice di averlo letto. Sono felice di aver conosciuto l’autrice attraverso le sue stesse parole e la sua stessa esperienza, senza maschere né artifici letterari.